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Arredi Dosi Delfini ai Chiosi.

Aggiornamento: 23 feb 2022





Specchiera


Misure: altezza cm.280 larghezza cm.145

La specchiera ad andamento verticale si sviluppa in altezza.

La battuta è a gole lisce e rovesce su bordo rilevato e bombato, cui seguono gole degradanti su sagoma a cassetta, attorno alla quale è applicata la fascia scolpita ed intagliata a giorno.

La parte inferiore è centrata da una protome femminile coronata di serti fogliacei, da cui si dipartono rigogliose foglie di acanto e contorte volute che, rincorrendosi lateralmente, creano un articolato gioco di intrecci.

Due paffuti Zefiri, modellati a tutto tondo e adagiati ciascuno su un cespo, mostrano gli stemmi araldici della famiglia: la cicogna e la torre. Agli angoli del registro superiore si aprono due turgide inflorescenze da cui scaturiscono due ampie foglie accartocciate che, impennandosi sostengono il terzo putto. Questo, seduto su un elaborato intreccio di fogliami e fiori, si staglia sopra l’intera composizione, raffigurando, attraverso il suono della sua tromba, la diffusione della fama del casato nel mondo.



Console


Misure: altezza cm.100, larghezza cm.142, profondità cm.54

La console è composta di un piano sagomato e decorato con arabeschi graffiti, il quale sottende un apparato decorativo ad intagli naturalistici fittamente intagliati e scolpiti, ricalcando lo stesso programma iconografico presente nella specchiera con la quale fa pendant.

Tra articolati viluppi di foglie, volute e fiori, si affaccia al centro della composizione una faccina di putto inghirlandata, mentre due altri piccoli Zefiri scolpiti, simmetrici ai lati, si mostrano sdraiati su due volute avvolgenti.

Il tutto poggia su di una base modanata sorretta da tre piccoli piedi a forma di pigna.






Questi arredi sontuosi e di grande effetto scenografico furono senza dubbio costruiti ad hoc per la famiglia e, certamente siti in un luogo privilegiato, avevano lo scopo di ostentare il rango e la grandezza del casato.

Nell’inventario redatto in occasione della morte di Niccolò Dosi, avvenuta nel 1769, gli arredi vengono così descritti:

Mezzo Tavolino con suoi piedi di legno intagliati, ed innorati, con sotto due angioli, e mascherone parimenti innorati, comè lo stesso tavolino sopra il quale vi è uno Specchio grande con suo cristallo con cornice magnifica intagliata, ed innorata, nella cornice vi sono impressi tre angioli di rilievo di legno innorati che tutti e tre formano l’arma di Casa Dosi, con un mascherone pure impresso nella medesima cornice sotto lo specchio, di legno, ed innorato come sopra (1)

In virtù di una tradizione familiare oralmente trasmessa da generazioni, l’arredo è stato da sempre ritenuto opera di Andrea Brustolon (1662-1732).

Questa tesi è supportata anche da accreditati storici locali, convinti dell’esistenza di un fantomatico documento di viaggio, secondo il quale l’arredo sarebbe stato trasportato da Venezia a Livorno a bordo di un galeone di proprietà Dosi ed in seguito, caricato a dorso di mulo, sino alla villa di Pontremoli.

Questa attribuzione, seppur mai realmente documentata, si è radicata a tal punto da indurre anche la nota studiosa Rossana Bossaglia ad inserire l’arredo in una sua pubblicazione come opera di A. Brustolon. (2)

Nonostante i numerosi indizi raccolti portassero verso una quasi certa attribuzione ad Andrea Brustolon, è di fondamentale importanza rilevare che, in seguito al meticoloso lavoro di ricerca d’archivio effettuato dalla sottoscritta presso l’archivio privato della famiglia, non essendo emersa alcuna prova documentale a sostegno di tale attribuzione, ho ritenuto opportuno liberare il campo dalle sopra citate supposizioni ed intraprendere un percorso analitico - basato sulla disamina riguardo alla modalità dell’intaglio e alla progettazione di insieme - che mi ha portato a riconsiderarne l’autenticità.

E’ indubbio che, tanto il pensiero progettuale quanto la sintassi decorativa di questo mirabolante arredo richiamino alla mente composizioni di indiscussa matrice romana.

E’ vero che Il Barocco nasce ed è romano, così Goffredo Lizzani titolò un capitolo della sua pubblicazione Il Mobile Romano, ma è altrettanto vero che dalla capitale si diffuse rapidamente per ogni dove.

La grande rivoluzione Barocca - perché di una vera e propria rivoluzione si trattò - investì in toto l’intero comprensorio delle Arti cosicché quelle cosiddette Minori divennero importanti tanto quanto le Maggiori.


1) Archivio di Stato di Pontremoli, Inediti sulla fam. Dosi e sulla villa dei Chiosi. Inventario del 1769

2) R. Bossaglia -V. Bianchi - L. Bertocchi "Due secoli di pittura Barocca a Pontremoli" Cassa di Risparmio di Carrara 1974 pag. 65

3) G. Lizzani. " Il mobile romano", De Agostino - Goerlich, Milano 1970 pag. 15


 




Attraverso un processo di coinvolgimento emotivo totale dello spettatore e in virtù dell’equivalenza di tutte le discipline artistiche, si approdò ad una nuova visione e ad un nuovo modo di rapportarsi con l’arte.

Ogni parametro manierista fu superato: la razionalità lasciò il posto alla fantasia, l’equilibrio perfetto, la simmetria - tipici dell’architettura rinascimentale - al movimento e alla bizzarria, a soluzioni formali ardite e virtuosistiche.

L’estetica barocca, nata dalla fervida fantasia di menti geniali, sfociò spesso in una sorta di esplosione espressiva avente come obiettivo quello di coinvolgere da un punto di vista emozionale lo spettatore, che di fronte all’originalità del manufatto e alla sua spettacolarità doveva stupirsi, meravigliarsi e, talvolta, addirittura commuoversi.

Questo approccio “teatrale” riuscì magnificamente a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) colui che meglio di nessun altro ha saputo plasmare la Roma papalina del XVII secolo e che, regista ed arbitro del gusto artistico della stagione barocca, imprimerà una svolta decisiva e del tutto nuova alla cultura artistica della città eterna.

Il baldacchino di S. Pietro, custodito all’interno della Basilica di S. Pietro in Vaticano, realizzato tra il 1624 e il 1630, può essere a buon diritto considerato l’archetipo di questo nuovo gusto scenografico di intendere la decorazione.

Dotato di una mente poliedrica il Bernini fu architetto, scultore, pittore, urbanista ma anche designer ante litteram; in quella veste non disdegnò di disegnare arredi.

Fra i molteplici e svariati tipi da lui progettati vorrei ricordare, quali eloquenti esempi utili per la mia indagine, i due tavoli da muro che ideò per i Chigi a Roma (oggi conservati nel palazzo Chigi di Ariccia), resi noti agli studi da Alvar Gonzalez-Palacios, intagliati dal tedesco Antonio Kicker (italianizzato Chicari o Chiccari ) nel 1663.

La struttura di questi due arredi mantiene un certo rigore e simmetria in linea con la tradizione, ma ciò che cattura il nostro occhio è l’esplosione di una vegetazione esuberante ed avvolgente che diventa la protagonista dell’intaglio.

Un gusto nuovo per un ornato che gioca con il mondo vegetale, ed allora ecco intrecci e grovigli di foglie carnose e rigogliose inflorescenze che faranno spesso da sfondo a putti, testine ed emblemi araldici.

I suggerimenti del Cavaliere furono captati da architetti, disegnatori, decoratori ed ornatisti, interpretati e tradotti dagli intagliatori, declinati, a seconda delle varie tradizioni culturali, in ogni singola regione italiana.

Tra i proseliti più meritevoli, ricordiamo l’architetto tedesco Johan Paul Schor, (1615-1674) fedele allievo e collaboratore di Bernini, non che accademico di S.Luca che lavorò per il Papa Alessandro VII, per Cristina di Svezia e per Lorenzo Onofrio Colonna; fu pittore, ornatista, scenografo ed inoltre autore di un’importante opera grafica.


(4) E. Colle, "Il Mobile Barocco in Italia", Electa, Milano 2000 pag 75

(5) A. Gonzalez-Palacios,"Arredi e Ornamenti alla Corte di Roma", Electa, Milano 2004 pp. 80,81


 


Sul finire del secolo (1698) vennero date alle stampe in Roma da Domenico de Rossi una serie di 32 Tavole fra le quali si ammirano carrozze, tavoli, specchiere, stemmi araldici ed altri complementi d’arredo eseguiti da F. Passarini. (1651-post1700) (6)

Ciro Ferri (1634-1689), il più fedele ed ortodosso allievo di Pietro da Cortona, illustratore ed inventore di arredi, carrozze ed apparati effimeri, fu autore insieme al maestro di un taccuino di oltre cento schizzi.

Le due carrozze di gala progettate per accogliere il conte di Castelmaine, Ambasciatore di S.A.R. Giacomo II da Papa Innocenzo XI in Roma nel 1687, sono paradigmatiche di quell’esuberanza dell’ornato che ha caratterizzato questi anni. (7)

Per concludere, Giovanni Giardini (Forlì 1646- Roma 1721) orafo, secondo il giudizio di Alvar Gonzalez Palacios (8) il più originale, in quanto ideatore di forme nuove; considerato uno dei più grandi maestri dell’oreficeria romana a cavallo dei due secoli, pubblicò nel 1714 una serie di tavole nelle quali venne riprodotto un vasto repertorio di oggetti di argenteria sia liturgica sia profana.

Fu proprio la pubblicazione di queste importanti raccolte di incisioni, veri e propri repertori grafici da cui poter attingere per la realizzazione di arredi, che facilitò la diffusione in tutto il territorio italiano del nuovo lessico ornamentale durante la seconda metà del secolo e gli inizi del secolo successivo.

Queste specie di prontuari, rappresentarono certamente dei validi strumenti di divulgazione di una certa tipologia di ornato che, seppur non sempre originale, trovò esecuzione materiale in diversi mobili, tra cui, con ogni probabilità, quello preso qui in esame.


(6) "Nuove Inventioni d’ornamenti d’architettura e d’intagli diversi utili ad argentieri, intagliatori, ricamatori ed altri professori delle buone arti del disegno inventati e intagliati da F. Passarini", (7) (7) G.Lizzani “Il Mobile romano” De Agostini Gorlich. Milano 1970 pag 29 fig 59-60).

(8) "Bernini e la grande decorazione barocca" Catalogo mostra pag 185

(9) "Disegni diversi inventati e delineati da Giovanni Giardini da Forlì argentiere del Palazzo Apostolico e fonditore della reu. Camera".

Incisioni di M.J. Limpach da Praga 1714.

Biblioteca Apostolica Vaticana (Cicognara IX. 516).

R.Valeriani in Catalogo della mostra “Gian Lorenzo Bernini. Regista del Barocco Romano”. Skira Milano 1999. Roma Palazzo Venezia 21 Maggio-16 Settembre 1999



 


Ne sono testimonianza i due disegni di tavoli conservati nella collezione Tessin di Stoccolma ed una pletora di esemplari tutt’oggi esistenti, disseminati nei più grandi ed aggiornati palazzi della Roma del tempo.

Mi riferisco ad esempio, per citarne solo alcune, alle consoles di Palazzo Ruspoli, a quelle della Galleria Spada e a quelle di palazzo Corsini, oggi sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma.

Questo nuovo orientamento, latore di un gusto ampolloso ed enfatico, permeò l’intera penisola; alcuni modelli di consoles e specchiere vennero replicati, da intagliatori più o meno capaci, secondo il gusto e la tradizione culturale propria delle varie regioni di appartenenza.

Il ducato di Parma e Piacenza non fu esente dal recepire questi suggerimenti.

E qui, in Emilia, si conclude il mio percorso di studio alla ricerca dell’ignoto autore degli arredi presi in esame.

Il manufatto che ha colpito la mia attenzione, determinante per la mia ipotesi di attribuzione, è stata l’ancona che ospita una replica della Madonna Sistina di Raffaello, trasferita a Dresda nel 1754.

Questo felice incontro, per me un’autentica rivelazione, mi ha indotto ad approfondire la mia conoscenza circa la produzione artistica svoltasi in quel giro d’anni nel Ducato farnesiano e a cominciare a riflettere sul possibile parallelismo con gli arredi Dosi.

Lorenzo Aili (1657-1702), Giacomo Bertesi (1643-1710), Francesco Peracchi di cui si conoscono opere eccelse, non furono certamente i soli scultori ed intagliatori ad operare in quel territorio.

Custodita nella chiesa di S.Sisto a Piacenza, possiamo ammirare una straordinaria cornice in legno intagliato e dorato, opera di Giovanni Sceti.

Questo bravo intagliatore, noto certamente agli addetti ai lavori, ma non altrettanto ai più, era conosciuto perlopiù in ambito regionale.

Grazie agli studi approfonditi e alle pubblicazioni di Susanna Pighi, la sua fama ha iniziato ad oltrepassare i confini della regione guadagnandosi a buon titolo un posto di rilievo tra gli intagliatori di epoca tardo barocca

Giovanni Sceti noto a Piacenza anche come Ceti, Cete, Seti, Sete, o Setti -come si evince dai documenti- nacque in Valsesia nel 1654 e morì a Piacenza nel 1715.

Fu senza ombra di dubbio figlio d’arte, il nonno era Bartolomeo Ravelli, (Varallo 1585-1646) scultore di fama e il padre possedeva una rinomata bottega di intaglio in Valsesia.

Dopo aver svolto il suo apprendistato presso il laboratorio paterno non si fece mancare, tra il 1683 e il 1687, un soggiorno formativo a Roma che gli valse l’appellativo di “Romano”.



(10) THC 1093, THC 1096

(11) S. Pighi, Atti del Convegno Internazionale Genova 3-5 Dicembre 2015 “Scultura lignea Barocca a Piacenza: Giovanni Sceti e altri protagonisti”


 


In seguito si stabilì a Piacenza dove aprì una propria bottega di intaglio, attiva fino alla prima decade del XVIII sec. Qui, affiancato da maestranze capaci, licenziava soprattutto sculture di devozione ed arredi sacri, accontentando la richiesta di una sua affezionata clientela.

Ma entriamo specificatamente nel merito della sua produzione.

Nel Settembre del 1697, la sua grande occasione: l’Abate Prospero Tinti da Cremona gli commissionò la grandiosa cornice che avrebbe ospitato il dipinto della Beata Vergine, opera di Raffaello, nel coro della chiesa di S. Sisto a Piacenza di cui ho accennato sopra.

Gli insegnamenti di derivazione berniniana appresi a Roma dal nostro, durante il suo breve soggiorno, erano stati recepiti e ben assimilati: l’impostazione monumentale e scenografica, l’intaglio naturalistico possente e rigoglioso, l’intreccio di importanti volute, insomma l’esuberanza dell’insieme parla un dialetto assolutamente romano di età tardo barocca.

Nel 1702 arriva la seconda importante commessa, fu stilato infatti il contratto per la realizzazione del monumentale complesso della cantoria e cassa d’organo nella chiesa di S. Antonino a Piacenza. In questo grandioso macchinario ligneo Sceti utilizza la stessa grammatica ornamentale ricreando le medesime suggestioni già anticipate nella cornice della Madonna Sistina.

L’idea compositiva di entrambe le opere prevedeva un serrato rincorrersi di elementi vegetali e volute ma anche l’inedita presenza di cherubini che, scolpiti a tutto tondo, le arricchivano di un importante apparato scultoreo.

Ancora una volta, come suggerisce Susanna Pighi, (12) Bernini “docuit ”.

Questi piccoli bambini angelicati infatti, avevano già fatto il loro debutto nel 1656 scolpiti in marmo da Antonio Raggi (1624-1627) su disegno del Bernini, posizionati alla base delle cantorie in Santa Maria del Popolo a Roma,

In sintesi: due furono senza dubbio le fonti di ispirazione dello Sceti quando si apprestò ad intagliare i nostri arredi.

In primis le incisioni di Passarini di cui ho fatto cenno e mi riferisco ad una in particolare, già ben nota alla critica, che raffigura due specchiere, una delle quali, d’accordo con E. Colle e con S. Pighi ha molti punti di contatto con l’ancona della cornice Sistina.

In secundis, come rende noto Enrico Colle (13) il nostro aveva certamente negli occhi i putti modellati in stucco disposti sulle pareti e sulle volte della Cappella della Beata Vergine di Costantinopoli in S. Vitale a Parma.

Gli autori di questa stupefacente scenografia in stucco che tappezzava le pareti dell’intera cappella fino al soffitto, furono realizzati tra il 1666 e il 1669 da Domenico e Leonardo Reti appartenenti ad una nota famiglia di stuccatori originaria di Laino in Val di Intelvi. Questi talentuosi stuccatori al servizio dei Farnese, rivestirono un ruolo molto importante all’interno del Ducato e costituirono come ci suggerisce E.Colle (14)“un’inesauribile fonte di ispirazione per tutta una generazione di artigiani attivi sia a Parma che a Modena”.

Ma anche questi eminenti plastificatori lombardi avevano frequentato Roma e collaborato con scultori dell’entourage del Bernini.


(12) Ibidem

(13) Ibidem pag 244


 

E’ evidente che esistano assonanze tra la cornice Dosi qui presa in esame e la cornice Sistina. Il richiamo è netto.

Non vorrei annoiare i miei lettori riportando in questa sede un soporifero elenco dei dettagli iconografici che le accomunano, o soffermarmi sulla resa scultorea e la modalità dell’intaglio che le rendono molto simili.

Non si tratta a mio avviso di un azzardo affermare che, con grandissima probabilità, furono ideate ed intagliate nello stesso “atelier “; lascio ad ognuno dei miei lettori la divertente emozione della conferma.

In ultima istanza, un ulteriore dato che riveste una certa importanza a favore della mia ipotetica attribuzione, è la scoperta di un Cristo porta croce, ritenuta la sua opera più antica, che fu eseguito guarda caso per l’oratorio di S. Geminiano a Pontremoli (15) ; particolare che sta a dimostrare la frequentazione dello Sceti del borgo lunigianese.

Non si conoscono ad oggi opere certe di committenza laica a lui attribuibili.

Giovanni Godi ritiene Sceti il responsabile della realizzazione di una cornice di non grandi dimensioni proveniente probabilmente dagli arredi ducali di Parma custodita presso i depositi della Galleria Nazionale di Parma. (16)

In conclusione quindi, Sceti, interprete degli ultimi esiti del tardo barocco di ascendenza romana, ci ha consegnato opere di indubbio pregio e maestoso impatto visivo, supportate sempre da un intaglio eseguito da mano esperta e capace. D’altro canto però la sua esecuzione è sempre rimasta a mio parere troppo vincolata dalla fedeltà e dal debito di riconoscenza ai modelli da cui ha tratto ispirazione - a volte a detrimento di quella forza narrativa e di quel dinamismo, che rappresentano invece la cifra stilistica delle opere di Brustolon.

Questa a mio avviso è la cifra che differenzia i due grandi scultori: l’esecuzione accademica da un lato, il genio creativo e la capacità narrativa dall’altro.

(14) Ibidem pag 244

(15) C. Longeri- S.Pighi "Il Mobile Piacentino" Edizioni Tip.Le.Co. Piacenza 2003

(16) Giuseppe Cirillo- Giovanni Godi “Il Mobile a Parma fra Barocco e Romanticismo” Ermanno Albertelli editore 1983 pag 85


 

La cornice Sistina, senza ombra di dubbio, come evidenzia Susanna Pighi, “rappresenta forse la più straordinaria fra le testimonianze dell’età barocca nel piacentino” .

Questa dovette suscitare un certo scalpore ed ammirazione da parte di molti intagliatori che a lui fecero riferimento, tanto da rappresentare a sua volta un modello che ebbe decisamente fortuna e grande seguito.

Troviamo infatti vari esemplari affini, diffusi in tutto il territorio di area parmense-piacentina durante i primi lustri del XVIII sec. nei quali ricorrono le stesse soluzioni decorative e lo stesso impianto strutturale, molte delle quali possiamo ancora ammirarle a Bologna presso il Museo Davia Bargellini.

Odoardo Perfetti (1684-1767) fece certamente riferimento a Sceti quando ideò la cornice in legno intagliato e dipinto datata 1711 e collocata nella chiesa piacentina di S. Maria degli Speroni di cui ci parla S. Pighi in una delle sue pubblicazioni

L’eternità dell’Arte consiste proprio negli echi che è in grado di suscitare attraverso i secoli.

Il territorio emiliano nel quale hanno operato in quel lasso di tempo anche altri eminenti intagliatori e scultori, quali Francesco Petacchi e Lorenzo Aili, penso possa essere ancora terreno fertile per ulteriori importanti scoperte e mi auguro che questo mio piccolo contributo possa servire da stimolo per ulteriori studi ed approfondimenti.





Ringraziamenti


Desidero ringraziare per aver reso possibile questo studio: Rita Aliboni, per avermi supportato durante tutto il lavoro; Niccolò Dosi Delfini ed Elena Gray de Cristoforis per avermi accolta nella loro proprietà ed accompagnata durante lo studio d'archivio; Susanna Pighi, per l'indispensabile consulenza; Enrico Colle, per i preziosi spunti; Roberta Pintor, per le fotografie; Roberto Antonetto, per avermi stimolata a creare questo blog e mio figlio Jacopo, per avermi aiutata a realizzarlo.









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